Il grido di dolore degli «uomini rossi»
Il Corriere della Sera - 2 settembre
di Giuseppina Manin
Bechis racconta il calvario dei Kaiowa: popolo senza diritti né avvenire, con il più alto tasso di suicidi
VENEZIA — Hanno raso al suolo la loro foresta, hanno portato via la loro terra, l’hanno cosparsa di veleni chimici per far crescere canna da zucchero e soia in fretta, sempre più in fretta. Coltivazioni transgeniche intensive per fabbricare quell’ etanolo di cui il Brasile ambisce a diventare il maggior esportatore. A loro, agli indios del Mato Grosso, non è stato lasciato nulla, né i boschi per cacciare né i campi per far crescere manioca e patate. Gli sono rimaste solo fame, miseria, disperazione. Per guadagnare qualche soldo finiscono dai fazendeiros, i nuovi padroni, a lavorare in condizione di semischiavitù su quelle terre una volta loro. Chi non ce la fa, si stordisce con l’alcol o lo trovano appeso con una corda a un albero. Benvenuti ne La Terra degli uomini rossi, sottotitolo italiano per Birdwatchers, scritto e diretto da Marco Bechis che, ribaltando le regole del cinema dove la star è sempre bianca e l’indigeno—da Mission a Fitzcarraldo— sempre sullo sfondo, ha voluto qui far raccontare la storia dai protagonisti, veri indios, mentre tra i ruoli secondari troviamo attori come i bravi Claudio Santamaria e Chiara Caselli.
Tutti arrivati al Lido con il regista. Terzo e applauditissimo (15 minuti di battimani a fine proiezione) film italiano in concorso, La terra degli uomini rossi, da domani nei cinema distribuito da 01, è l’appassionata denuncia della tragica condizione dei Guarani Kaiowa, una delle 220 tribù indigene del Brasile (ogni due anni ne scompare una), circa 30 mila indios confinati in riserve simili a bidonville del Brasile centro occidentale. Negli ultimi vent’anni 517 di loro si sono impiccati. In gran parte erano giovani. «Forse il più alto tasso di suicidi al mondo. Non hanno retto all’idea di non aver nessun diritto e nessun avvenire», spiega il regista, 53 anni, italiano nato in Cile, vissuto in Argentina, da 30 anni di casa a Milano. Costante la sua attenzione all’America Latina come testimoniano i suoi film precedenti, da Garage Olimpo a Hijos-Figli. «Lì si parlava di desaparecidos, qui di sopravvissuti», precisa Bechis, che si è inoltrato nei mondo dei Kaiowa con l’aiuto di Survival, da 40 anni in difesa delle popolazioni indigene (per info e aiuti www.guarani-survival.org).
«Questi indios sono quel che resta di uno dei più grandi genocidi della storia —riprende—. Perché l’eterno conflitto tra bianchi e indigeni ha sempre come oggetto la terra. La conquista prosegue. Sostenuti dal governo, i fazendeiros hanno operato una deforestazione selvaggia, la stessa che mette in pericolo il pianeta. La legge dice che il 20% delle foreste doveva essere conservate, ma ne è rimasto solo il 2%. Basterebbe riprendere quel 20% che non dovevano disboscare, 700 mila ettari, e restituirli ai Kaiowa per assicurare la loro sopravvivenza». Ma poiché nessuno sembra prendere in considerazione questa saggia ipotesi, stanchi di aspettare l’intervento delle autorità sempre schierate dalla parte dei ricchi e potenti latifondisti, da qualche anno le comunità Kaiowa sono passate al contrattacco con la «retomada», la rioccupazione pacifica di parte delle loro terre, sfidando le ire dei fazendeiros e dei loro sicari assoldati per intimidire, picchiare, uccidere. «Questo film è molto importante per noi. Vuol far conoscere la nostra situazione. E io ho speranza che comprendiate», interviene Ambrosio Vilhalva, capo tribu Kaiowa, tarchiato, capelli nerissimi, tratti fieri. Per tre volte ha guidato la «retomada» e alla fine è riuscito a ottenere un accordo giudiziario che consente al suo gruppo, circa 140 persone, di restare sull’area conquistata.
Accanto a lui due ragazzi, Abrisio 20 anni, nipote di un leader politico e religioso della tribù e Kiqui, capelli tinti di biondo, con doti «magiche » che gli assicurano un avvenire da sciamano. Ma a parlare tra le lacrime è una donna, Alicelia, 30 anni, cinque volte madre: «Quello che chiediamo è di dare un’opportunità ai nostri figli», esordisce. Poi la sua voce si spezza. «Siamo gente come voi. Abbiamo la nostra lingua, la nostra cultura, vogliamo avere i nostri diritti. Noi vi rispettiamo, crediamo sia giusto che voi facciate lo stesso ». «Non è facile accettare l’”altro”, l’”altro” ci fa paura», avverte Bechis alludendo anche ad altri «indios»: i clandestini, gli emarginati, i rom… «Prima o poi vorrei fare un film sull’ Italia — annuncia —. Un Paese che sta andando alla deriva da ogni punto di vista, compreso quello culturale. Quello che servirebbe è proprio la curiosità. Gli “altri”, ce l’hanno nei nostri confronti. Sono qui, ci osservano, sperano in noi. Sono convinto che gli indios abbiano idee più chiare delle nostre su come vivere in questo mondo. Se noi bianchi non avremo curiosità e attenzione nei loro confronti, non ci sarà futuro. Né per loro né per noi».
Ascolta la videointervista con Marco Bechis
Ascolta la videointervista con Claudio Santamaria
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