note di regia
marco bechis - filmografia
L’arrivo del cinema dai guaranì-kaiowà: una battaglia cinematografica
Questo film è dedicato a Enrique Ahriman, mio amico e maestro, morto nel 2002 a Buenos Aires. Parlavamo molto dei nostri progetti, Enrique era un artista poliedrico ma le opere a cui più teneva eravamo noi, i suoi amici. Pensava sempre, e pensava più a quel che noi avevamo in mente che a quel che erano le sue numerosissime opere personali. Mentre se ne andava, lentamente, parlammo molto del più grande genocidio della storia umana, la Conquista d’America. Mi interessava il “problema dell’altro” che Todorov aveva analizzato profondamente in un suo libro dallo stesso titolo. Lui mi suggerì di leggere Yanoama (video) la storia-intervista a Helena Valero, una donna sequestrata dagli indigeni per trent’anni, una specie di Tarzan al femminile.
L’anno dopo, era il 2003, feci un lungo viaggio lungo la cordillera delle Ande, tra le comunità indigene che abitano il Perù e l’Ecuador, mi spinsi poi nell’Amazzonia Ecuatoriana in un piccolo aereo con un gruppo di birdwatchers, visitando la tribu degli Ashuar, che avevano incontrato l’uomo bianco solo quarant’anni prima. Di ritorno a Milano scrissi di botto una sceneggiatura sulla vicenda di Helena Valero e preparai un viaggio di sopralluoghi.
Da anni seguivo le campagne di Survival per la difesa delle popolazioni indigene, visitai le loro sedi a Londra e Milano. Mi documentai sulle tribù che ancora sopravvivono in America Latina e scovai rarissimi video su indigeni appena contattati. Poi venni a sapere del fenomeno dei suicidi tra i giovani guaranì-kaiowà del Mato Grosso do Sul e delle lotte per la rioccupazione delle loro terre, le retomadas. Capii subito che i guaranì-kaiowà erano il popolo che volevo conoscere da tempo, pur non avendone mai sentito parlare prima. Ma avevo anche capito che la sceneggiatura scritta su Helena Valero non mi sarebbe servita. E cambiai subito piani di viaggio, non più l’Amazzonia.
Misi in borsa una macchina fotografica 35mm, un taccuino, un registratore audio e partì con Caterina Giargia (scenografa e costumista) per Dourados, una delle città principali della regione, moderna e ricca, centro della produzione di soia transgenica targata “Monsanto”. La cittadina sembrava essere il set di Twin Peaks di David Lynch. Alla stazione degli autobus ci aspettava Nereu Schneider, avvocato, che da vent’anni si occupa della difesa dei guaranì-kaiowà. Nereu ci portò a conoscere le comunità indigene della regione e la prima che visitammo fu quella di Ambrosio, poi diventato attore protagonista del film (Nadio). La sua vicenda di vita degradata nella riserva di Carapò, l’occupazione poi di una fazenda sorta una sessantina di anni prima su terre indigene, lo scontro quotidiano con i fazenderos, sono stati eventi che hanno segnato la traccia della sceneggiatura che stavo incominciando a scrivere. Quella di Ambrosio era una vicenda esemplare. Cinquecento anni dopo la Conquista il conflitto era lo stesso di allora. Cambiati i modi, non la sostanza. Il film che volevo fare aleggiava in quei luoghi, ma la questione era “come” fare il film, con quale linguaggio cinematografico, quali stratagemmi. Sapevo che il problema principale era scegliere gli attori che avrebbero interpretato quelle storie, ma quali attori professionisti avrebbero potuto farlo? Ho poi trovato la risposta a questa domanda un pomeriggio durante una riunione con autorità del governo: quegli uomini e donne indigeni che osservavo mentre parlavano a gran voce con le autorità di Brasilia, possedevano un’arte retorica sofisticata, sapevano parlare in modo convincente, con grande controllo delle parole e del corpo. Erano attori. Da quel momento in poi ho sempre saputo con assoluta certezza che il film ci sarebbe stato solo se riuscivo a far diventare quegli indigeni gli attori protagonisti del film. Senza di loro il film non aveva senso.
Per confermare quella mia prima intuizione chiesi a un giovane indigeno di nome Osvaldo della comunità di Ambrosio se gli interessava fare l’attore in un film, lui mi chiese che cosa voleva dire fare l’attore in un film, io gli risposi che fare l’attore significava rappresentare un personaggio, che bisognava imparare a recitare. Lui ci pensò un secondo e mi rispose: “Ma io recito già tutti i giorni”, “E quando?” domandai stupito, “tutti i giorni, quando prego” rispose. I loro rituali sono rappresentazioni “teatrali”, manifestazioni e dialoghi con Nhanderu, il loro Dio. Recitare è nella loro tradizione millenaria.
Siamo arrivati alla preparazione del film vero e proprio solo a fine del 2006. Ed ecco come abbiamo iniziato la selezione degli attori, ne avevamo bisogno circa 230 tra ruoli principali, secondari e comparse.
Urbano Palacio, gran conoscitore della lingua guaranì, ha percorso le comunità indigene del Mato Grosso do Sul intervistando 800 indigeni. Ci siamo poi concentrati in tre grandi comunità nei dintorni di Dourados. Dovevamo limitarci a comunità vicine alla città e ai luoghi di ripresa perchè non volevamo sradicare gli attori dalle loro famiglie per periodi lunghi. Durante le riprese gli indigeni sono stati portati sul set ogni mattina e sono ritornati nelle loro comunità ogni sera.
Abbiamo poi esamintato uno per uno gli intervistati, prendendo decisioni a più livelli: oltre alle potenzialità espressive, c’erano problemi che in un casting convenzionale non esistono: volevamo sapere prima di cominciare le riprese se gli indigeni scelti sarebbero arrivati alla fine del percorso.
La grande paura era la discontinuità del lavoro con gli indigeni. Mi ripetevano tutti che non sarei arrivato alla fine del film, che mi avrebbero lasciato a metà strada, che avrebbero protestato e scioperato come fecero nel film Aguirre furore di Dio e Fitzcarraldo di Herzog, come in Mission di Joffé. Ma furono preoccupazioni infondate: tutti gli indigeni scelti sono rimasti al posto di lavoro fino al termine delle riprese.
A proposito di Mission, film con i guaranì: gli indigeni sono sempre lo “sfondo” delle scene, le “figure” sono Bob de Niro e Jeremy Irons, nel nostro film volevo rovesciare questo schema e fare degli indigeni le “figure” e ritagliare agli attori bianchi professionisti i ruoli dello “sfondo”.
Finita la prima selezione, avevamo un centinaio di indigeni che erano pronti al fare il film. Volevo metterli al lavoro prima di decidere chi avrebbe interpretato i ruoli principali. Ho incontrato Luiz Mario, regista teatrale che mi ha affiancato nel lavoro di preparazione. A lui una situazione come quella che gli proponevo non era mai capitata. Non dovevamo imporre esercizi e tecniche recitative classiche, coscienti che ciò avrebbe portato ad una frantumazione della loro spontaneità e della loro originalità. Dovevamo partire dal loro universo culturale e materiale. E dovevamo ben tener presente, che loro possedevano già una enorme capacità “recitativa”: la dizione, il portamento, la gestualità, la recitazione, erano tecniche che li avrebbero ingessati. Con Luiz Mario si è deciso quindi di preparare il loro corpo, la loro voce, partendo dalle loro cultura gestuale e dalla loro scala tonale. Sono iniziati quindi una serie di “seminari teatrali” con gli indigeni.
Dopo i primi mesi di lavoro, riguardai le prime improvvisazioni registrate in video e mi accorsi che qualcosa non funzionava ancora: gli indigeni parlavano sempre il più possibile, come se fosse a loro vietato il silenzio, come se la parola fosse l’unico mezzo di “rappresentazione” nella scena che improvvisavano. Ho pensato alla loro tradizione orale, ma anche alla televisione che molti di loro vedono. Ho capito allora che avevano bisogno di sapere di più su come funziona il cinema, questo non glielo aveva ancora insegnato nessuno.
In una sala di proiezione improvvisata mostrai due sequenze di film dove i dialoghi quasi non ci sono (Uccelli di Hitchcock; C’era una volta il West di Sergio Leone). Proiettai le scene in tre diversi modi: la sequenza tale quale all’originale, la stessa sequenza interrotta da due secondi di schermo muto nero ad ogni taglio d’inquadratura, ed una terza versione della stessa scena senza alcun suono. Ho mostrato quindi che cosa succedeva ad ogni taglio, come ogni scena era composta da tanti pezzi, che ognuno di quei pezzi erano le inquadrature che stavamo per girare. L’interruzione di due secondi di nero, rendeva chiaro il concetto di scena e di inquadratura e soprattutto faceva vedere chiaramente l’attacco, a quindi incominciavano ad intuire che cosa era il “montaggio”. Ma la cosa che più mi premeva era un’altra, erano i silenzi. In una sequenza senza dialoghi di C’era una volta il West ho spiegato l’importanza di quei silenzi, ho fatto capire che spesso quei silenzi valgono più di cento parole. Li ho messi in guardia, spiegando che gli attori protagonisti del film erano loro ma che gli attori secondari (Claudio Santamaria, Matheus Natchingale, Chiara Caselli, Leonardo Medeiros) erano professionisti che ben sapevano usare quei silenzi in una scena, che ben sapevano prendersi i loro tempi prima di rispondere. Di fronte alle immagini di Leone e Hitckcock, con un click hanno capito al volo.
Durante le riprese bastava io dicessi: “ricorda C’era una volta il West…” e Ambrosio mi rispondeva: “ho capito che cosa intendi, Marco”, e faceva delle lunghe pause guardando l’attore bianco, prima di parlare. E’ stata impressionate la velocità di assorbimento. In cinque mesi sono diventati attori.
Matheus Natchingale, attore brasiliano che interpreta Dimas nel film, chiese allo sceneggiatore Luiz Bolognesi se gli sembrava buona idea girare un altro film con gli stessi indigeni, Matheus è anche regista. Luiz gli ha risposto, di botto: “Gli attori in genere non fanno mica un film solo”.
Marco Bechis