L’ impossibile riscatto dei nobili indios
Corriere della Sera - 27 Agosto 2008
di Gian Antonio Stella
Al cinema la storia dei Guaranì alla riconquista della loro terra
Gli indios «sono le genti più delicate, magre e di fragile costituzione e che meno può sopportare il lavoro e più facilmente muoiono di qualunque infermità», scriveva nella sua Brevisima relacion de la distruycion de las Indias Occidentales Bartolomé de las Casas. Ancora poco più di un anno e saranno passati esattamente cinque secoli dal giorno in cui, sconvolto dal sermone di un domenicano sull’ uguaglianza tra gli uomini, il grande difensore dei popoli indigeni dell’ America Latina si spogliò delle sue vesti di ricchissimo proprietario terriero per farsi frate e buttarsi come un leone nella missione alla quale avrebbe dedicato la sua intera esistenza. Rovesciare l’ idea, teorizzata dal suo acerrimo nemico Juan Ginès de Sepulveda, che una «legge divina» avesse stabilito che «coloro i quali eccellono in saggezza e intelligenza ma non in forza fisica, sono per natura padroni» e i loro sottomessi «per natura schiavi». Cinque secoli. Eppure, i sopravvissuti dei circa 70 milioni di individui che abitavano il continente al momento dello sbarco di Colombo (che descrisse quelli appena incontrati come uomini «dolci e gentili» e «sebbene nudi» di maniere «decorose e lodevoli»), non sono ancora riusciti a ottenere rispetto. Soprattutto in quel Brasile che, dopo essere stato l’ ultimo nel 1888 ad abolire la schiavitù nel Nuovo Mondo, ancora rifiuta di riconoscere agli indios non solo la proprietà delle terre perdute ma anche dei fazzoletti di polvere in cui sopravvivono. Pochi dati, della organizzazione Survival che si batte per gli ultimi discendenti dei Guaranì, degli Yanomami, degli Akuntsu (rimasti in sei: sei!), dicono tutto. Resistono 460 mila indigeni di 225 popoli diversi tra i quali poche decine di gruppi non ancora raggiunti dalla «civiltà» delle ruspe, del disboscamento, delle segherie multinazionali. Eppure, anche se il 12% del Brasile è indicato come «terra indiana», non un metro quadrato è di proprietà dei popoli nativi. Falciati dalla miseria, da condizioni sanitarie spaventose, da mille umiliazioni quotidiane che negli ultimi anni hanno spinto al suicidio, solo tra i Guaranì-Kaiowà, oltre 500 giovani. Un’ epidemia. Che tocca perfino i bambini. Come Luciane Ortiz, che aveva appena nove anni. C’ è chi dirà: non lo sapevo. Vero: giornali, televisione, politica non si occupano del tema. Da lunedì prossimo, però, sarà un po’ più difficile dirlo. Al festival di Venezia arrivano infatti gli indios de La terra degli uomini rossi di Marco Bechis, il regista già autore di Garage Olimpo. E se è possibile che siano accolti con la curiosità pelosa riservata dalla corte di Isabella di Castiglia ai primi indigeni spediti in Spagna, il film di cui sono protagonisti è un formidabile pugno nello stomaco. Racconta infatti, usando attori non professionisti, la storia di alcuni Guaranì-Kaiowà che, stremati dalla povertà, dall’ alcool, dallo sfruttamento dei «caporali» che rastrellano manovali in una bidonville ai margini di una città ricca e luccicante, tentano sotto la guida di un capo di nome Nadio, un impossibile riscatto: la riconquista della «loro» antica terra. Una foresta massacrata, stravolta, svuotata da ogni animale. Divorata dalla coltivazione intensiva di canna da zucchero. Una storia vera. Aspra. Senza sconti. Dove i «buoni» escono sconfitti. Anche se l’ ultimo urlo di guerra e di dolore…
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